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Collasso: imparare dai nostri errori

Sostenibilità ambientale, società umane e sistema economico sono facce della stessa medaglia e sono strettamente legati tra loro.

Lo studio delle società antiche e dei loro fallimenti può esserci d’aiuto per evitare di commetterli di nuovo.

Docente all’Università della California, fisiologo, biologo evolutivo, biogeografo e autore di numerosi saggi (tra cui “Il Terzo Scimpanzé”, in cui analizza i comportamenti individuali e sociali della specie umana utilizzando i criteri usati per studiare gli altri grandi primati, e “Armi, Acciaio e Malattie”, dove spiega la diffusione di alcune culture a discapito di altre basandosi sulle caratteristiche geografiche dei territori in cui si sono sviluppate), Jared Diamond in “Collasso” affronta il fenomeno del crollo di civiltà antiche, inteso come una riduzione drastica del numero della popolazione e/o della complessità politica, economica e sociale, in un’area estesa e in un prolungato lasso di tempo, paragonandole a situazioni odierne simili, come il Ruanda, Haiti e Repubblica Dominicana, Cina e Australia.

In particolare, i casi studio affrontati nel volume sono l’isola di Pasqua, le isole Pitcairn e Henderson nel pacifico, la popolazione degli anasazi del nord america, i maya e le colonie vichinghe (Islanda, isole Orcadi, Shetland e Faer Oer, Groenlandia e isola di Terranova), tutte civiltà sviluppate, floride e durate diversi secoli prima di scomparire.

In tutti questi casi, che pur si collocano lontanissimo tra loro sia come zona geografica sia come periodo storico, le società hanno messo a rischio se stesse e sono infine crollate perché hanno distrutto il loro ambiente. Diamond identifica otto categorie di comportamenti antiecologici adottati a vario titolo dalle civiltà sopracitate: deforestazione e distruzione dell’habitat, gestione sbagliata del suolo (con conseguente erosione, salinizzazione e perdita di fertilità), cattiva gestione delle risorse idriche, eccesso di caccia, eccesso di pesca, introduzione di specie invasive, crescita della popolazione umana e aumento dell’impatto di ogni singolo individuo sul territorio. Nella storia di tutte queste civiltà, inoltre, si sono susseguiti fenomeni simili: crescita della popolazione – intensificazione della produzione agricola e coltivazione di terreni inadatti – inaridimento e abbandono di aree estese – carestie, epidemie, guerre per il controllo delle risorse disponibili e migrazioni di massa – drastica riduzione della popolazione – tracollo improvviso delle strutture sociali preesistenti.

Cosa abbiamo in comune noi con popolazioni vissute lontane nel tempo e vissute in luoghi isolati con risorse limitate? Jared Diamond sostiene che, partendo dalla constatazione che la globalizzazione ha reso la popolazione umana estremamente interdipendente e connessa, la Terra è ormai da considerarsi come un Pianeta isolato con risorse limitate che, se non utilizzate in maniera sostenibile, finiranno inevitabilmente per esaurirsi.

Com’è possibile che così tanti popoli abbiano potuto gestire in maniera tanto sbagliata le loro risorse?

La domanda che i suoi studenti fanno più spesso a Diamond durante le sue lezioni in università è la seguente: Com’è possibile che un popolo abbia potuto prendere una decisione così palesemente folle come quella di abbattere tutti gli alberi da cui dipendeva la sua sopravvivenza?

O ancora: A cosa stava pensando chi stava materialmente tagliando l’ultimo albero presente sull’Isola di Pasqua?

Diamond afferma che, come sempre avviene quando si affrontano tematiche complesse, non esiste una risposta semplice e univoca. Ma prova comunque ad individuare quattro categorie di fattori alla base di comportamenti ecologicamente dissennati:

1. 1. Non si riesce a prevedere il sopraggiungere del problema.�Questo può avvenire quando una comunità di persone si trova ad affrontare eventi del tutto nuovi di cui non ha mai fatto esperienza e non si riesce ad immaginare la possibilità del sopraggiungere di un problema. Oppure quando, nell’affrontare una situazione nuova, si cade nell’errore cognitivo della falsa analogia: in una situazione sconosciuta istintivamente si fanno analogie con casi familiari, ma le analogie si basano su somiglianze soltanto apparenti; questo è accaduto ad esempio ai vichinghi in Islanda e Groenlandia, territori apparentemente simili alle loro terre di origine (Norvegia e Britannia) ma con un clima molto meno piovoso e con un terreno molto più inadatto ai metodi di coltivazione utilizzati in madrepatria.

2. 2. Non ci si accorge che il problema esiste.�Questo può accadere quando i problemi sono impercettibili ai loro esordi, come la riduzione di nutrienti nel suolo o l’inquinamento delle acque, o quando le risorse che si devono gestire sono a grande distanza. �Il caso che ci tocca più direttamente è quanto accade con il surriscaldamento globale: il problema in atto si manifesta gradualmente ed è mascherato da ampie fluttuazioni. I due errori cognitivi in cui si rischia di cadere sono la cosiddetta “normalità strisciante” e la “amnesia del paesaggio”; per normalità strisciante si intende la tendenza ad adattare lo standard con cui definiamo la normalità ai cambiamenti lenti e graduali (quello che si accetta come normale risponde a standard inferiori rispetto al passato), mentre per amnesia del paesaggio si intende la tendenza a dimenticare quanto fosse diverso il territorio in cui si vive se il cambiamento è avvenuto in maniera lenta e graduale

3. 3. Ci si accorge del problema ma non si prova a risolverlo.�Questo, secondo Diamond, può accadere quando si persegue il ragionamento “i miei interessi vengono prima di quelli degli altri”: si vede la prospettiva di raccogliere profitti grandi, certi e immediati, a scapito dell’intera comunità; il danno è distribuito tra tutti e quindi è individualmente minimo (esempio: i sussidi statali per attività altrimenti antieconomiche).�Un altro caso è quando molti fruitori traggono profitto da una risorsa comune: se tutti sfruttano eccessivamente la risorsa, questa si esaurisce e tutti ne risentiranno, e sarebbe nell’interesse comune porre dei limiti allo sfruttamento; ma i singoli individui spesso sono portati a pensare “se non lo faccio io lo farà sicuramente qualcun altro”.�Un altro caso è quello per cui gli interessi della società sono in contrasto con quelli dell’élite al potere, che persegue i suoi interessi senza ritegno (danneggiando il resto della comunità) perché ha la percezione di non subire conseguenze dalle sue azioni. �Questi sono tutti esempi di ragionamenti logicamente corretti (anche se moralmente discutibili) che alcune parti della società scelgono di perseguire.�Esistono però, secondo Diamond, numerosi casi di “comportamento irrazionale”, cioè che non giova a nessuno: è il caso di quando si persegue a fare comportamenti abitudinari anche quando dannosi (utilizzo della plastica quando se ne potrebbe fare a meno); di quando si è riluttanti ad abbandonare un’attività che si è rivelata fallimentare o poco proficua se vi si è già investito molto (l’alta velocità Torino-Lione); di quando si difendono dei valori radicati culturalmente anche se dannosi per la società (mangiare carne rossa sinonimo di ricchezza e benessere, cambiare spesso automobile o elettrodomestici anche se funzionanti, ecc); di quando l’opinione pubblica non tiene in gran conto chi dà l’allarme o quando l’allarme dato in precedenza si è rivelato infondato; di quando gli obiettivi a breve termine sono in contrasto con quelli a lungo termine. Infine, un comportamento irrazionale consiste nel cosiddetto “rifiuto psicologico”: quando qualcosa è emotivamente troppo doloroso o spaventoso, tendiamo inconsapevolmente a sopprimerlo o a negarne l’evidenza.

4. 4. Si cerca di risolverlo ma non si riesce.�Il problema va troppo al di la delle nostre capacità di risolverlo o è stato ignorato per troppo tempo e non si riesce più a farvi fronte.

Consapevolezza ecologica e gestione sostenibile delle risorse ambientali: costruire comunità resistenti.

Le società che sono riuscite a sopravvivere in ambienti poco favorevoli o isolati, secondo Diamond, devono il loro successo all’adozione di due opposte strategie.

La strategia Top-down è quella per cui uno Stato centralizzato forte prende in mano la situazione e gestisce le risorse ambientali direttamente, adottando politiche che a lungo termine porteranno giovamento alla società. È il caso del Giappone dell’era Tokugawa (prima del 1868), dove l’élite al potere ha adottato una politica di gestione forestale per risolvere i problemi ambientali del Paese. In seguito a una forte crescita demografica, quasi tutte le foreste del Giappone erano state distrutte per la produzione di legname e la creazione di nuovi campi da coltivare. Intuendo i problemi che si stavano accumulando, i sovrani giapponesi decisero di incrementare la pesca e aumentare i commerci per importare legname, riducendo così il bisogno di campi coltivati e di tagliare alberi sul loro territorio. Inoltre, riuscirono ad avere una gestione forestale capillare ed efficiente, tanto che la selvicoltura diventò un’attività economica molto redditizia.

Come riuscirono a farlo in maniera così efficace, in poco tempo e in tutto il territorio che controllavano? Con un controllo centrale così forte da non lasciare alcun margine all’iniziativa personale e alla libertà individuale, mantenuto attraverso l’uso dell’esercito e una rigida suddivisione del territorio tra le famiglie aristocratiche, che ne erano proprietarie e quindi direttamente responsabili, togliendo di fatto alle comunità che li abitavano ogni autonomia.

La strategia Bottom-up, al contrario, è quella per cui una comunità, che ha il diretto controllo del territorio in cui abita e da cui dipende per il suo sostentamento, coopera per gestire in maniera sostenibile le sue risorse. Ad esempio, gli abitanti della piccola isola di Tikopia e quelli degli altipiani della Nuova Guinea riescono a gestire le limitate risorse del loro territorio da più di mille anni senza aver compromesso l’ambiente in cui vivevano e questo, sostiene Diamond, perché vivono in società in cui tutti conoscono bene l’intero territorio da cui dipende la loro sopravvivenza, tutti condividono le stesse risorse, tutti hanno interessi comuni e si sentono partecipi di una stessa identità. Le conseguenze di comportamenti antiecologici, inoltre, hanno conseguenze tangibili per tutte le componenti della società e per ogni individuo.

Anche se non esistono società umane totalmente isolate, esistono però già oggi alcune comunità locali che combattono per la salvaguardia del proprio territorio, anche con ripercussioni positive a livello globale. Si parla di comunità resistenti come quella della val di Susa, quella sorta ad Hambach in Renania, la Zad di Notre Dame de lande: tutte lotte accomunate da un processo partecipativo e informativo capillare, che parte dal basso, da un elevato grado di conoscenza del proprio territorio e delle problematiche ad esso connesse, sempre con una visione globale: in tutte queste comunità è fondamentale la consapevolezza che il loro territorio è solo uno dei tasselli che compone l’ecosistema terrestre. Da una parte si ritrovano ad affrontare problemi causati da altri (che non vivono in quel territorio), dall’altra sono consapevoli che senza un intervento delle diverse comunità ognuna sul proprio territorio è impossibile la soluzione delle problematiche ecologiche che toccano tutti.