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ANTIFA FEST 4.0

Milano, 12/13 marzo 2022

Dopo le tappe di Roma, Bergamo e Genova, torniamo a discutere teorie e pratiche dell’antifascismo del XXI secolo!

Lo stato del mondo nella crisi perenne:

Le crisi, siano esse sociali, economiche, sanitarie o ambientali, sono ormai concatenate e continue, l’una prelude e prepara quella successiva: non si tratta più di contesti emergenziali delimitati, ma di un vero e proprio paradigma dell’emergenza diventato strutturale a questa organizzazione socioeconomica. Pertanto, non si parla più di crisi del capitalismo, ma di capitalismo della crisi.
La sindemia da Covid-19 non fa eccezione, iscrivendosi pienamente nel paradigma governativo che utilizza le crisi come terreno per la proliferazione e collaudo di strumenti di controllo e di assoggettamento della popolazione.
Questo spietato meccanismo utilizza la paura come leva per schiacciare la popolazione nell’ansia costante, generando insicurezza e diffidenza verso tutto ciò che è altro da sé. Si producono così soggettività predisposte ad una vita individuale del tutto atomizzata.
Col sempreverde ausilio degli organi di stampa, si alimentano pulsioni xenofobe e confusioni semantiche, la colpa della povertà e dell’emarginazione è dei poveri e non una responsabilità ben precisa del sistema capitalista.
La diffusione perpetua di paura e diffidenza genera un bisogno indotto di sicurezza, rendendo ogni forma di controllo tollerabile se non desiderabile.
Questa ennesima crisi, rispetto a quella economica del 2008, presenta un elemento di novità: l’ascesa delle destre sovraniste alla guida di significativi movimenti sociali, in tutte le loro declinazioni internazionali.
Infatti, nell’ultimo decennio, le varie organizzazioni neofasciste, con le loro istanze protezioniste e xenofobe, agitando il tema della sicurezza in chiave securitaria, hanno saputo proporre risposte false a problemi complessi e reali, alimentando una guerra fra ultimi anzichè una verticalizzazione del conflitto.

In tutto l’Occidente l’opzione fascista è diventata così concreta, diffusa e desiderabile.
La rinnovata popolarità e consenso di cui godono le forze di estrema destra in tutta Europa impatta inoltre in modo rilevante sulle dinamiche di genere, sulla vita delle donne, sulle maschilità non conformi, sulle soggettività lgbtq+.
Lo vediamo in atto in paesi come la Polonia, dove le forze sovraniste sono al governo, ma anche in paesi come l’Italia, dove la vita delle donne e delle persone lgbtq+ è colpita ogni giorno da diverse forme di violenza in nome di politiche familiste.
E’ innegabile il nesso tra queste ultime e le politiche migratorie attuali. Due decenni di campagne mediatiche, fondate sulla retorica “dell’invasione” e del “pericolo immigrati”, hanno permesso di giustificare leggi e azioni contro i migranti, coadiuvate da interventi più o meno conformi delle milizie identitarie delle formazioni neofasciste. Infatti, gli stati nazionali e l’Unione Europea hanno trasformato l’Europa in una fortezza, nominando i fascisti loro cavalieri di frontiera e facendo diventare il mediterraneo un cimitero di persone.

Il fascismo del III millennio, come anche quello storico, non rinuncia all’ideologia contro la contaminazione e il mescolamento delle cosiddette “razze”: sessimo e razzismo non sono un corollario del fascismo, ne sono parte integrante. Il sentimento di paura generato dai governi e che alimenta la diffusione di un microfascismo antropologico è lo stesso mega-meccanismo utilizzato per la gestione dell’emergenza pandemica. In questo senso la pandemia e la paura da essa generata è diventata un eccezionale dispositivo di controllo.
Il governo della paura ha pressochè annichilito i conflitti di classe, che già avevano difficoltà a manifestarsi pre-pandemia, spostando ulteriormente l’attenzione ed il dibattito pubblico sulla gestione dell’emergenza.

Nella gestione di questa emergenza le scelte politiche si giustificano in nome della scienza, le regole igienico-sanitarie si confondono con quelle dell’ordine pubblico e i cittadini sono trattati come pazienti. Ma la scienza, in questo modo, perde il suo carattere apparentemente neutrale e viene invocata come tecnica per svolgere una precisa funzione governamentale.
In questo scenario caotico la democrazia si qualifica come “democrazia sanitaria”, in cui la tutela della salute viene gestita come problema di ordine pubblico. Si restringe sempre più il campo dei diritti e delle libertà individuali e l’emergenza sanitaria viene gestita nell’ottica dei processi di ristrutturazione e trasformazione di cui il sistema necessita per capitalizzare l’ennesima crisi.
Il virus esiste ed è pericoloso, ne siamo consapevoli. Invece in molti cavalcano strumentalmente il malcontento della classe media impoverita, alimentando e fomentando un caotico universo negazionista, antivaccinista e complottista.

Un’internazionale nera, composta delle varie formazioni neofasciste europee e nordamericane, ha investito economicamente e politicamente su scala globale nell’intrigo complottista, strumentalizzando e contribuendo a far deflagrare un fenomeno già diffuso prima della pandemia. Una strategia volta a nutrire il sospetto e ad alimentare la diffidenza, a diffondere false credenze e assolute negazioni, per rispondere ad un bisogno diffuso di disvelamento di verità in un contesto sempre più incerto, confuso e perciò destabilizzante.
Una ricca occasione per salire alla ribalta, costruita a regola d’arte, dal contorno vagamente antisistemico e ribellistico. Così le organizzazioni sovraniste hanno costruito la loro egemonia nelle piazze a livello globale, di cui hanno costituito la testa e l’ordine del discorso, definendone tempi, modi e luoghi. L’opzione sovranista appare così sempre più legata alla galassia complottista, una trama che diviene ormai ineludibile per tutte le realtà antifasciste che vogliono rimanere ancorate alla realtà del presente.

Dall’analisi di questa fase storica osserviamo che la progressiva e apparentemente inarrestabile frammentazione della società ci vede contrapposti gli uni agli altri senza margine di cooperazione. Questo è più evidente nelle periferie dei grandi aggregati urbani e nelle loro province, dove le relazioni tra persone, sopraffatte da ritmi di lavoro inumani e da una esistenza meramente volta alla sopravvivenza, sono attraversate da conflitti, anche violenti, ma mai verticalizzati verso i veri responsabili. Viene a disgregarsi così quella dimensione di socialità e di comunità, già travolta dalla globalizzazione.
Tale frammentazione si riflette poi anche nella vita politica istituzionale: nei parlamenti, non solo in quello italiano, non esiste più una maggioranza definibile. Lo spettro discorsivo politico è ormai talmente ampio e confusamente variegato che istanze, parole e attitudini di destra e di sinistra si sfumano fino a confondersi.

In questo magma di sfiducia verso le istituzioni, che perdono in autorevolezza ma non in autorità, in un panorama in cui destra e sinistra hanno molto in comune e poco a differenziarle, nella frammentazione e l’atomizzazione sociale e lavorativa, l’unico collante sociale che resta, paradossalmente, è proprio la paura. Certamente noi non possiamo fondare su di essa il nostro agire politico, ma vediamo nel riconoscerla il primo passo per rompere l’ apatia del presente, per passare poi a combatterla in ognuno ed ognuna di noi, per riscoprire il coraggio di lottare per noi stessi e con gli altri. Un’ ipotesi percorribile potrebbe partire da questo dato di frammentazione della società combinandolo con i nostri discorsi e le nostre pratiche politiche.

Se infatti da un lato le piccole comunità territoriali sono sintomo della lacerazione di un tessuto sociale vittima della rapacità del capitalismo, dall’altro esse sono spesso foriere di un modus vivendi altro, autonomo, basato sulla solidarietà e il mutuo aiuto dal basso. Sebbene questa opzione politica fatichi a delinearsi ed affermarsi come espressione di assoluta e totale autonomia, crediamo che il modo per trasformare la guerra civile latente orizzontale, tra classi subalterne, in una forma di conflitto verticale, verso le classi dominanti, sia organizzare i territori e i loro abitanti in comunità autonome, solidali, resistenti e perciò antifasciste.

Il complesso organizzativo dell’universo mutualistico e le soggettività che lo stanno attraversando, dalle Brigate Popolari per l’emergenza ai Gruppi di Appoggio Mutuo, passando per le più diversificate esperienze territoriali, manifestano e, al tempo stesso, realizzano un bisogno generale di appartenenza a una comunità. Integrarsi in un’entità corale, identificandosi così in un “noi”, in cui ogni “io” possa inscriversi senza perdere la propria singolarità, sfruttando le proprie peculiarità come contributo alla collettività.
La cura verso gli altri e le altre è diventata pratica resistente contro lo sfruttamento e la discriminazione dello stato capitalista e neoliberista. Le comunità resistenti sono quindi un baluardo etico, politico e territoriale contro l’avanzare del mostro neoliberista; le cure particolari che confederate possono attaccare e sconfiggere il peggior virus della modernità: il capitalismo.

Nel solco di questi ragionamenti vogliamo continuare a dibattere, a confrontarci e costruire un discorso comune, che affini le risposte ai numerosi interrogativi che come compagni e compagne ci attanagliano quotidianamente. Solo lo sviluppo di un piano discorsivo e di una conseguente azione può portarci a edificare contropotere nei territori, a creare realtà alternative alla bruttura dell’odierno status quo.

La bussola per orientarsi oggi può essere la costruzione di comunità territoriali antifasciste, antirazziste, antisessiste, ecologiche; ma questa evoluzione deve, per forza di cose, passare per un’elaborazione corale e armonica, pena l’autoisolamento.

Per questo vogliamo creare momenti ad hoc di analisi e discussione, nei quali affrontare sinceramente i nostri limiti, dai quali ripartire per provare coralmente a plasmare una nuova realtà, tutti e tutte insieme.

Per continuare a camminare in sinergia, ognuno nei propri territori, con le proprie specificità, ma dandoci forza reciprocamente.

Vi aspettiamo a Milano il 12 -13 Marzo

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Sindemia, cura, comunità

Le società precapitaliste tendevano a promuovere la fiducia nelle virtù della cooperazione e dell’accudimento, dando così un senso etico alla vita associata; la società moderna promuove invece la fiducia nelle virtù della competizione e dell’egoismo, e così facendo priva il consesso umano di qualsiasi senso (se non, forse, quello di essere uno strumento di accumulazione e consumo insensati).
M. Bookchin


Questa riflessione nasce dalla volontà di condividere i ragionamenti, le prassi e le modalità che abbiamo sperimentato durante questa sindemia e porci nuove domande e obiettivi. Parliamo di sindemia consapevoli del fatto che la pandemia non è uguale per tuttə, ma cambia in base a classe sociale, genere, paese di provenienza e luogo di residenza. Abbiamo analizzato alcuni dei fattori ed eventi che hanno influenzato profondamente le nostre esistenze, consciə di averne tralasciati tanti altri. Ogni storia non è mai neutra e, ripercorrendo i passi che abbiamo compiuto in questo lungo periodo, siamo arrivatə alla consapevolezza che la “cura” e il “prendersi cura” deve essere al centro di ogni lotta che pretenda una reale giustizia sociale. 

CAPITALISMO E SOLITUDINE COMUNE
La sindemia da Covid 19 rappresenta una delle conseguenze più spietate del capitalismo neoliberista: milioni di morti in tutto il mondo causati direttamente dalla mercificazione e privatizzazione della sanità. La possibilità e l’impossibilità di accesso alle cure sanitarie, infatti, hanno acuito le discriminazioni già esistenti tra ricchə e poverə, all’interno di una cornice caratterizzata da crisi economiche cicliche con alti tassi di disoccupazione, catastrofi ambientali già in atto, guerre imperialiste e una continua violazione dei diritti umani.  

La “cura”, o meglio l’incuria, neoliberista ci ha trasformato da potenziali cittadinə con diritti (in teoria) universali a clientə che comprano sul mercato. Ci hanno convintə che la libertà di scelta tra merci e servizi, all’interno di una ideologia individualista, sia una reale condizione di libertà e di benessere.
Progressivamente è stato sostituito il Welfare con il Wellness.

Le privatizzazioni e la crisi dello stato sociale hanno portato all’accentuarsi della credenza che ai bisogni individuali si debba dare una risposta individuale, mai collettiva, alimentando uno degli assi centrali del capitalismo: l’individualizzazione dei corsi di vita, la convinzione che si possa ottenere tutto quello che desideri se lavori e ti impegni, in una costante rivalità e competizione con l’altrə. Se non ci riesci, la colpa sarà solo tua, mai del sistema. Questa biografia “del self made man” è una biografia a rischio che fa coincidere l’assunzione di autonomia da parte dei soggetti singoli a una condizione di solitudine comune, anche in momenti di forte fragilità. Questa è la conseguenza di una mancanza di solidi e solidali modelli collettivi ai quali fare riferimento per progettare e valutare il proprio percorso di vita e la costruzione di beni comuni. 

La verità è che il neoliberismo ci uccide ma ci lascia l’illusione che a morire siano solo i/le deboli, coloro che per pigrizia o incapacità sempre individuale, non hanno saputo sopravvivere.

SALUTE E SANITA’
Il 20 giugno 2020 abbiamo deciso di scendere in piazza, dopo mesi di lockdown e di distanziamento fisico e sociale, con la volontà di portare avanti un processo popolare che andasse ad evidenziare le responsabilità politiche della Regione Lombardia nella gestione dell’emergenza sanitaria e sociale. Responsabilità collegate a un’idea di sanità e di gestione delle risorse pubbliche basate sul modello neoliberista. Dopo mesi di paura e disorientamento che avevano portato a una ricerca esasperata del caprio espiatorio di turno (l’untorə, il/la runner, l’immigratə, chi porta fuori il cane), ci siamo presentatə sotto la sede della giunta di Attilio Fontana, insieme alle realtà di mutuo soccorso che sono intervenute fin dai primissimi giorni di chiusure, per esprimere la rabbia nei confronti del disastro lombardo, quella serie di eventi che nella prima ondata han portato la  regione Lombardia ad essere il territorio con più morti in tutto il mondo per densità di popolazione.

La determinazione a denunciare le scelte consapevoli e scellerate della Regione e i 25 anni di tagli alla sanità pubblica sono stati il motore principale di quella giornata, unito alla volontà di cacciare gli esponenti politici e pretendere un’altro tipo di sanità e di cura. L’evidente impreparazione e le scelte politichedi privatizzazione portate avanti da Formigoni, Maroni e Fontana ci hanno mostrato nella maniera più violenta che cosa significa dimezzare le risorse della sanità pubblica e ci hanno fatto provare sulla nostra pelle e quella dei nostri cari cosa comporta non avere una medicina territoriale radicata e di prossimità e una politica sanitaria volta alla prevenzione primaria -cioè ad ostacolare l’insorgenza delle malattie nella popolazione sana, combattendo le cause e i fattori predisponenti; un’attività sanitaria che non produce profitto, a differenza di interventi chiurgici, esami diagnostici e ospedalizzazione -. 

Il 20 giugno 2021, esattamente un anno dopo, abbiamo provato a raccogliere quello che avevamo faticosamente seminato durante l’anno, attraverso processi di costruzione di comunità della cura, di mutuo soccorso e di sinergia con i comitati e le varie vertenze nel mondo della sanità, con la consapevolezza che il momento era totalmente cambiato, rispetto all’anno prima. 
Dal disastro lombardo con le immagini indelebili dei carri militari che trasportavano le bare e i racconti strazianti dei parenti dei deceduti, siamo passati all’efficenza del piano vaccinale con una sostituzione strategica all’interno della giunta regionale di Giulio Gallera e l’entrata di Letizia Moratti, con la collaborazione immancabile di Bertolaso.
Questo secondo appuntamento, simbolicamente chiamato lo stesso giorno dell’anno prima, ci ha dato la triste conferma di quanto la “normalizzazione” di questa pandemia abbia compromesso la partecipazione in piazza e annebbiato la consapevolezza individuale e collettiva di cosa dobbiamo pretendere che cambi per uscirne realmente migliori. Le lotte e le varie vertenze sindacali che denunciano lo stato disastroso del nostro sistema sanitario vanno ormai avanti da più di 20 anni ma non riescono a trovare un movimento di massa che le supporti e una rete coesa che le fortifichi, probabilmente però questa è la storia di quasi tutto il Movimento.

ASSUEFAZIONE E RIMOZIONE
In un anno si è manifestata una sorta di rimozione di massa del trauma, assieme a un esasperato bisogno di un ritorno alla normalità.
La stessa normalità che ha portato a una crisi sanitaria, ecologica, economica e sociale mondiale. 
L’assuefazione alla morte, ai disastri, alle tragedie e la ridondante nozione di resilienza ci portano a sentirci lontani dalla sofferenza altrui. “[…] Quello che sembra venire meno, più o meno consapevolmente, è l’empatia, il sentimento che si accompagna al dolore della perdita, anche di chi non conosciamo, insomma la compassione nel suo senso più profondo, come partecipazione alla sofferenza dell’altro” scrive Lea Melandri, scrittrice e attivista femminista. 
Sembra davvero che la morte e la paura della morte ci abbiano inizialmente coltə impreparatə, perchè nella società capitalista e neoliberista la morte stessa è il più grande rimosso: non produce profitti, non è instagrammabile, ed il tempo necessario ai cari della persona scomparsa per elaborare il lutto è un tempo solitario, senza consumi. Cosa compri se tua madre muore? Quale piatto carino ordini e fotografi per non piangere da solə?

La morte è stata  relegata a qualcosa al di fuori della nostra storia, fuori dai margini della società. Qualcosa di lontano, inevitabile, ripetitivo, quasi noioso. Chi doveva morire è morto, chi è vivo deve continuare a vivere, produrre, consumare.  Il tempo del lutto ci è stato tolto.
Ma all’interno di questo processo di rimozione, che ruolo ha la memoria e la pratica politica di ricordare collettivamente, di continuare a denunciare quello che è successo? La memoria è un muscolo che come tale deve essere allenato e mai dato per scontato, proprio per evitare che situazioni tanto drammatiche si ripetano.

SINDEMIA E PRIVILEGIO
Sicuramente questa rimozione non riguarda solo le persone comuni e il loro bisogno di tornare alla routine quotidiana, ma è una rimozione politica con uno scopo preciso, quello di tutelare il sistema stesso che ha prodotto questa pandemia: il capitalismo. I salti di specie da animale a uomo (spillover), che hanno generato la pandemia di Covid-19, sono l’effetto di una sistema che sfrutta, inquina, devasta il nostro pianeta, e mercifica le altre specie viventi. Le deforestazioni, gli allevamenti intensivi, l’agrobusiness, il consumismo, i disastri ecologici che stanno colpendo i mari, la terra e l’aria sono il volto predatorio del capitaliamo. Sono il frutto di una visione antropocentrica e gerarchica, in cui l’uomo ricerca il dominio sulla natura, così come il dominio sull’altro essere umano.

I tentativi degli Stati nazionali di mitigare i danni climatici in atto, sono inefficaci e volutamente tardivi, visto i decenni di denunce da parte di scienziatə e attivistə che avevano già largamente predetto i cambiamenti climatici, l’aumento di epidemie, e l’estinzione di massa causata dall’attività dell’uomo. Tutto questo si aggiunge alla mancanza di servizi socio-sanitari accessibili a tuttə, la mancanza di prevenzione e istruzione scientifica (secondo la logica paternalista dello Stato) e la conseguente difficoltà ad accedere a cure necessarie e tempestive, per combattere un virus insidioso e spesso letale, non solo per persone con più patologie e molto anziane. 

Gino Strada, fondatore di Emergency, la cui morte ha lasciato una enorme perdita per tuttə noi, un anno fa diceva che: “La pandemia ha messo in evidenza l’estrema fragilità del nostro sistema sanitario. Siamo stati travolti, come la quasi totalità degli altri Paesi, da un’emergenza incontestabile. Molte delle nostre difficoltà si devono a questo, ma non possiamo ignorare che si tratta perlopiù di problemi strutturali, non emergenziali.

Più le origini del virus continueranno ad essere rimosse, così come le implicazioni politiche e le responsabilità della gestione della cosa pubblica e delle risorse collettive, più il rischio di nuove epidemie e pandemie aumenterà, e ci saranno nuove discriminazioni e altre ingiustizie.

La vaccinazione di massa tanto proclamata, è solo un miraggio: il G20 della Salute, svoltosi a Roma il 5 e il 6 settembre 2021, non mira a eliminare il brevetto sui vaccini, ma si è impegnato a donare il 5% delle dosi prodotte solo a quelle popolazioni diStati che soddisfano i requisiti Amc (Advanced Market Commitment). Ancora una volta, il perno delle scelte è la capacità di produrre profitto e il mantenimento dello status quo di privilegio coloniale: nel continente africano, i vaccinati sono l’1,96%. 
Non stupisce quindi notare che, data l’origine di questo disastro nel capitalismo, non possiamo trovarne la soluzione nel capitalismo stesso. Sulla salute non ci deve essere nessun profitto. La salute è un diritto, non un privilegio, non può essere una merce.

Sarebbe troppo lungo elencare tutte le conseguenze prodotte da questa sindemia, perchè sarebbe una narrazione parziale e inficiata dalla nostra storia  – che è sempre una questione di geografia -, ma ci teniamo a dare qualche macroscopica idea:

  • aumento femminicidi e violenze di genere durante le chiusure/diritto negato all’Ivg / difficoltà ad accedere alle cure ormonali per le persone in transizione;
  • aumento di depressione, malattia mentale ;
  • persone con disabilità abbandonate a causa della chiusura di vari servizi;
  • impossibilità di prenotare per tempo visite non riguardanti il covid, con un conseguente aggravarsi delle patologie;
  • nessuna tutela economica per tutto il lavoro sommerso, aumento della povertà con conseguente disagio sociale; sovraccarico del lavoro di cura per le donne;
  • la Didattica a Distanza (DAD), poi diventata magicamente nella seconda ondata, quando non si era fatto nulla per mettere in sicurezza le scuole, Didattica Digitale Integrata (DDI),che non è stata uguale per tuttə ed ha ridotto ulteriormente il rapporto umano, la socialità e il diritto allo studio.

IL DISASTRO LOMBARDO…
Il disastro lombardo inizia a fine febbraio 2020: nelle stesse ore in cui si scopriva il “caso zero” a Codogno, i vertici di regione Lombardia decretavano la chiusura immediata di scuole, musei, teatri, cinema e luoghi di cultura, impedivano manifestazioni e cortei ma lasciavano aperti i centri commerciali. Erano le settimane di tristemente noti #milanononsiferma e #bergamononsiferma, della Settimana della Moda mai sospesa e della partita Atalanta-Valencia che ormai sappiamo essersi trasformata in un vero e proprio focolaio che porterà al diffondersi del contagio nella bergamasca e ad una vera e propria epidemia colposa che manterrà la Lombardia sotto i riflettori per mesi per le percentuali dei contagi, dei morti e per i troppi errori da parte delle amministrazioni politiche.

La mancata dichiarazione di zona rossa in Val Seriana e ad Alzano Lombardo, la mancata chiusura delle fabbriche e i luoghi di lavoro con l’escamotage del codice ATECO, l’ordinanza dell’8 marzo 2020 che andava a individuare le RSA come luoghi idonei ad accogliere i pazienti COVID post acuti per cure extra ospedaliere, il mancato aggiornamento del piano pandemico (anche a livello nazionale), le responsabilità di ministri e OMS,la mancanza di DPI, di posti letto, macchinari e personale sono solo alcune delle cause contingenti che hanno portato a migliaia di decessi e ad un sovraccarico insostenibile per gli ospedali e le operatrici e gli operatori sanitari. Infatti già a metà marzo 2020 gli ospedali sono al collasso e i medici costretti a scegliere chi curare e chi lasciar morire.  

Questi sono gli effetti della politica dei tagli alla sanità pubblica, dell’ aziendalizzazione della cura e della conseguente privatizzazione del settore sanitario (tre pilastri su cui si basa l’eccellenza lombarda da oltre 25 anni, grazie a Formigoni, Maroni e Fontana) e che ha trasformato gli ospedali in imprese (aziende sanitarie e aziende ospedaliere) che, come tali,hanno come obiettivo il profitto, non la cura. Privando di fatto la cittadinanza di una sanità pubblica, laica, territoriale, preventiva e garantita. Di un diritto universale.

Dopo la lunga estate del 2020, dove le amministrazioni politiche avevano la possibilità di aggiustare il tiro e riorganizzare parte delle procedure sanitarie e preventive, la situazione rimane immutata e le contraddizioni aumentano: mancano ancora le famose USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), viene inserito il coprifuoco serale, medicə e infermierə se contagiati devono fare la quarantena ma solo dopo l’orario lavorativo, vengono dichiarate nuove zone rosse che limitano la socialità ma che permettono di andare a lavorare. 
Mentre viene denunciato dai sindacati di base la mancanza di infermierə, di personale specializzato per le terapie intensive e di attrezzature, il sistema di tracciamento salta e ATS va in tilt. Negli ospedali il personale continua ad essere costretto a decidere chi curare e chi lasciar morire. 
A novembre si aggiunge anche il caos per i vaccini anti influenzali, Regione Lombardia non riesce a garantirli nemmeno ai cittadini più fragili, ormai esasperati, così come lo sono i medici. In molti sono costretti a pagarli di tasca propria rivolgendosi ai privati perchè le dosi sono insufficienti. Dopo il Vax Day del 27 dicembre, la “Fase 1” del piano vaccinale contro il Coronavirus parte a rilento. In particolare la Lombardia, dopo una settimana, rimane l’ultima regione per somministrazioni, avendo effettuato solo il 3% dei primi 80mila vaccini a disposizione. Arriva allora la sfiducia a Giulio Gallera e la nomina di Letizia Moratti che mette subito in chiaro la sua posizione dichiarando che i vaccini dovrebbero essere distribuiti alle regioni in base al loro PIL. 

La campagna vaccinale, nonostante il cambio di assessore, continua ad andare male e la colpa adesso è di ARIA Spa: sms inviati in ritardo, anziani chiamati a vaccinarsi a centinaia di chilometri dalla propria residenza e dal centro vaccinale più vicino, errori nelle convocazioni che portano o a sovraffollare i centri vaccinali o ad averli vuoti col rischio di buttare migliaia di dosi di vaccino, lasciando alle singole Asst o ai sindaci il compito di arrangiarsi per risolvere i problemi: così accade a Cremona, Crema, Monza, Bergamo, Varese, Milano, Como etc.

A quel punto Fontana chiede le dimissioni del CdA di ARIA in una conferenza stampa.
Per mettere a tacere ogni polemica, la Regione Lombardia torna sui suoi passi, abbandona il sistema di Aria e passa al portale gratuito di Poste dal 2 aprile 2021. Dopo circa 2 mesi di ritardi, in cui i morti continuano ad aumentare. Dopo aver speso 18 mln di €, soldi pubblici, pagati da quegli stessi cittadini che non riceveranno il vaccino fino al ritorno di Poste e all’arrivo del generale Figliuolo a gestire le vaccinazioni in Italia.

Questa la triste cronistoria del disatro lombardo.
Fontana, Gallera, la giunta regionale in carica nel gennaio 2020 ed ancora oggi sono i diretti responsabili della morte di migliaia di persone. Di questo siamo sicurə e non smetteremo mai di dirlo.

Per un approfondimento più dettagliato vi consigliamo http://www.zam-milano.it/le-date-di-una-strage/ e http://www.zam-milano.it/processo-popolare-pt-2/.

…E IL MERCATO LOMBARDO
La trasformazione della sanità lombarda in un mercato è già avvenuta. Nonostante la pandemia abbia dimostrato i limiti del sistema lombardo, a maggio 2021 la giunta regionale ha approvato un piano grazie a cui il finanziamento per ricoveri e visite ambulatoriali in strutture private aumenta fino a 7,5 miliardi (nel 2019 era di 2). Di questi, circa 3 miliardi sono per servizi socio-assistenziali sul territorio (privati più costosi di almeno il 20% rispetto al pubblico). 
Con l’arrivo dei soldi del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) si prevedono ulteriori vantaggi economici per le imprese che fanno profitto sulla salute. In teoria, le aziende sanitarie pubbliche sono le uniche possibili destinatarie dei fondi che il PNRR mette a disposizione per ristrutturazione, nuova edificazione e dotazioni strumentali e tecnologiche. Ma in pratica, come è scritto nella delibera regionale del 6/9/21 con cui la giunta fa approvazione delle linee di progetto per l’attuazione di Case e Ospedali di Comunità, si dichiara apertamente che questa indicazione verrà aggirata. La loro volontà è quella di realizzare strutture che svolgano le medesime funzioni previste dalle Case/Ospedali di comunità, ma gestite da erogatori privati accreditati e di attivare forme di collaborazione fra soggetti pubblici e privati nella conduzione di tali strutture. Ad oggi, il rischio è che su 30 Case di Comunità, 20 siano affidate ai privati accreditati. 

Quelle che il governo di centro-destra chiama “diverse forme di collaborazione” con il privato sono prospettate fin da ora come “sperimentazioni gestionali autorizzate dalla Giunta”, grazie alla legge regionale 23/2015 (Maroni), che ha dato il colpo di grazia alla medicina territoriale sgretolando la capillarità dei servizi in funzione del modello ospedalo-centrico. Ora il centro-destra è costretto ad istituire queste “Case di comunità” ma non sarà facile ripristinare una rete territoriale dopo decenni di disintegrazione, perchè non si tratta solo di costruire edifici, ma anche relazioni, competenze, processi, simbologie. 
Mentre la parola “comunità” sembra diventare mainistream, vogliamo ribadire quello che per noi è il suo significato rivoluzionario. 

CURA E COMUNITA’
La narrazione di ciò che è accaduto e il presente che viviamo, fatto di un nuovo mondo nel quale dobbiamo convivere con la pandemia, ci spinge verso una riflessione che portiamo avanti da diverso tempo e che riteniamo sia uno degli strumenti necessari per costruire una nuova comunità in grado di prendersi cura delle persone e della società.
L’individuo, nel contesto comunitario, è il punto di partenza di questa ampia riflessione legata alle pratiche possibili per costruire tre paradigmi interconnessi.

1. Comunità della cura.
La cura di noi stessə in relazione alle comunità che abitiamo è il primo passo per costruire gli strumenti necessari allo sviluppo di un’identità solidale che scardini il concetto di cura neoliberista, legato esclusivamente alla sfera individuale e alle possibilità economiche. Dobbiamo smantellare sia l’atomizzazione del soggetto nella vita, nel lavoro e in tutti gli altri aspetti della società, sia la mistificazione del concetto di cura come azione che pesa esclusivamente sul singolo. Dobbiamo costruire una nuova coscienza collettiva, che parta dal prendersi cura di noi stessə, basandosi sulla consapevolezza che abbiamo tuttə bisogno di ricevere cura dalla propria comunità

2. La comunità che cura
La comunità che cura è quella dove un welfare nuovo, non coercitivo, non assistenziale (e dunque che non crea dipendenza ma interdipendenza, complementarietà), non colpevolizzante o giudicante, è accessibile a tuttə; è quella comunità dove non ci sono discriminazioni di sesso, razza, classe, specie e si inverte il concetto di atomizzazione del soggetto per proiettarsi in un contesto di cura collettiva, di decisionalità capillare e di nuova forma della gestione delle cose e degli spazi comuni. Una comunità che cura è capace di occuparsi collettivamente delle complessità che risiedono nella gestione di una società ecologista, transfemminista, anticapitalista, antirazzista, antiabilista e solidale.
La trasformazione in comunità che cura del micro-contesto in cui viviamo e la replicabilità degli strumenti messi a disposizione, ci traghettano verso la soluzione necessaria alle barbarie del capitalismo e le sue conseguenze più drammatiche, come la sindemia che si è abbattuta sull’intera popolazione mondiale. Il contesto che abitiamo, affettivamente, emotivamente, politicamente diventa lo strumento con cui la comunità si interfaccia con le altre comunità (federazione) e con le quali si costruisce un tessuto sufficientemente ampio per incidere realmente sui cambiamenti radicali necessari.

3. La società della cura
In questa proiezione necessaria, tutti gli aspetti legati alla ri-territorializzazione della cura, trasformano il macro contesto sociale nella società della cura. Questa concezione dello spazio, privato e pubblico, assume una forma onnicomprensiva rispetto a tutti gli aspetti della società. Il lavoro, la cura di sè, l’autorganizzazione degli spazi di vita, del tempo libero, della sanità e del welfare (solo alcuni aspetti che determinano la nostra vita) devono essere trasformati con la massima urgenza.
Il perenne stato di emergenza legato all’ambiente, alla sanità, alle risorse e alle disuguaglianze richiede a gran forza un cambiamento strutturale e solo partendo dai contesti comunitari si può imporre questa trasformazione. La responsabilità individuale ha la sua importanza, ma non siamo più disposti ad assumerci le colpe di altri macro soggetti che impongono questo modello di società capitalista.
In questo contesto la nostra unica responsabilità è quella di opporci a questa matrice predatoria e antropocentrica mettendo in pratica la materialità della società della cura e imponendo al sistema la radicalità di questi cambiamenti.

MATERIALITA’ POSSIBILI
Con questo scritto vogliamo dichiarare il processo di avanzamento che da lungo tempo portiamo avanti in relazione alla costruzione di comunità resistenti.
Ci interessa capire come poter dare materialità ad alcune specifiche legate in particolare all’aspetto sanitario e a tutte le sue declinazioni. Se è vero che la salute non è solo assenza di malattia, dobbiamo domandarci quali sono gli elementi imprescindibili che costituiscono uno stato di benessere per tuttə.
Legandoci al concetto di cura, riteniamo valida l’ipotesi di organizzare i territori in relazione alle reali necessità dei luoghi in cui viviamo, autonomamente e partendo dall’autogoverno delle risorse.
La costante decostruzione della sanità di prossimità sta favorendo la centralità dell’ospedale come unico luogo di cura, il compito delle comunità è quello di invertire il flusso e immaginare i luoghi di cura all’interno dei territori. Così come trovare una materiale sinergia con le svariate realtà che si occupano di mutualismo e salute con le quali mettere in comune saperi e risorse per poter dare un riscontro tangibile al bisogno più grande, costruire la società della cura.

Una materialità possibile è quella, quindi, di creare luoghi e percorsi virtuosi che vadano a creare quel conflitto necessario a denunciare lo stato di non curanza del SSN e di progettazione di alternativa all’esistente, andando oltre il semplice assistenzialismo e volontariato verso un reale sistema mutualistico.